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"Gould ovvero la rimozione del romantico" di D.Mastrangelo

G l e n n    G o u l d
ovvero la rimozione del romantico 
di
Daniele Mastrangelo





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Glenn Gould (foto altra fonte)
Glenn Gould ripensò durante tutta la sua vita a quelle giornate trascorse a Mosca nel 1957, ai concerti e alla lezione estemporanea che diede al Conservatorio come ai momenti di vita musicale more exciting cui abbia mai preso parte. Ricco di entusiasmo fu certamente lo slancio con cui propose al pubblico le Variazioni Goldberg o la fascinazione che esercitò sugli studenti del Conservatorio, i quali attendevano magari una lezione sui classici e si trovarono invece catapultati nel mondo di Schoenberg, Webern e Berg; ma un segno altrettanto incisivo questa volta fu lui a riceverlo da un concerto cui si trovò ad assistere. Maggio 1957, sala del Conservatorio di Mosca, in programma l’ultima sonata di Schubert ovvero la Sonata in Si bemollemaggiore D 960. Non occorre essere esperti esegeti del repertorio di Gould perimmaginare quali fossero i suoi pensieri o meglio i suoi pregiudizi di fronte a questa musica. Non solo sono esilissime, quasi nulle le tracce nelle sue incisioni di musica del primo romanticismo, di Schubert,  Chopin, Mendelssohn, Schumann o Liszt; ma riguardo a Schubert in particolare il suo giudizio sembrava allora essere assai netto e avverso. «Credo di non avere alcuna inclinazione verso la gran parte della musica di Schubert, non riesco a scendere a patti con quest’uso assiduo della ripetizione e mi scopro assai irrequieto e mi agito quando si tratta di arrivare fino alla fine di queste lunghe narrazioni» – così si esprimeva il pianista ancora nel 1978. Per inciso bisognerebbe a questo proposito notare come probabilmente uno dei tratti costitutivi della genialità sia proprio la capacità di contraddirsi e che per questo nessuna delle dichiarazioni, dei giudizi di gusto di Gould andrebbero presi in senso assoluto, pena l’incorrere in impreviste smentite. Nel nostro caso ad esempio non possiamo non condividere anche soltanto con l’immaginazione, la meraviglia che dovette sorprendere il documentarista Bruno Monsaingeon allorché nel 1972 si trovò ad assistere ad un recital privato di Gould, che includeva, accanto ai consueti Schoenberg e Hindenith anche la Quinta di Schubert! Ma cosa accadde allora, nel 1957, in quel concerto con l'ultima Sonata di Schubert? «Durante quell'ora - raccontava Gould – io mi trovai in uno stato di trance, come sotto ipnosi. Di colpo dimenticai tutti i miei pregiudizi sulle strutture ripetitive nella musica di Schubert: dettagli musicali che prima consideravo puramente strumentali si rivelarono come elementi costitutivi della musica tanto che io posso ricordarne molti ancora oggi. Mi sembrava di esser testimone dell’unione di due qualità da me fino ad allora ritenute inconciliabili ovvero la profondità analitica e la spontaneità che lambisce l’improvvisazione». È il momento di rivelare che Gould ascoltò allora uno dei più intensi interpreti di questa musica, ovvero Sviatoslav Richter.
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Incontro di Gould con Richter, Maggio 1957. DRA

Da allora e per tutta la vita il pianista russo fu per Gould uno dei colleghi più degni di ammirazione, tanto da arrivare a proporgli anche la produzione di un’incisione discografica (vedi commento al post). L’incontro eccezionale con la musica di Schubert attraverso Richter non andrebbe soltanto confinato in un’ideale scelta di aneddoti rilevanti all’interesse del biografo, ma invece merita qualche ulteriore approfondimento nella misura in cui è in grado di far emergere alcuni tratti essenziali del modo in cui il pianista canadese viveva l’esperienza musicale e, soprattutto, le esclusioni o, se si vuole, le rimozioni che la caratterizzavano. Conviene allora partire di nuovo dalla musica e dalle sue ragioni. Gould associava immediatamente la musica pianistica di Schubert alla ripetizione; ripetizione, per lui che l’ascoltava, estenuante di un’idea musicale (poteva essere ad esempio un motivo, un tema o la sezione di un movimento in forma sonata). Per Gould ‘realtà musicale’ era invece l’idea nella sua compiutezza o, come avviene nel procedimento compositivo che egli venerava, l’idea nel suo processo di variazione continua; ‘realtà musicale’ invece non doveva essere e non voleva che fosse l’idea proprio in quanto ripetuta tal quale come ‘fissazione’, l’idea affidata, se così si può dire, al suo rinnovarsi nel tempo dell’ascolto e nelle emozioni che può suscitare la sua semplice ricorsività. Si può dire, rischiando un’astratta schematizzazione, che non solo il cuore dell’esperienza musicale stava per Gould nella lettura della partitura (rispetto alla quale l’esecuzione doveva essere una sorta di trascrizione), ma che questa lettura avveniva non tanto nella prospettiva dell’ascolto e dell’ascoltatore quanto piuttosto in quella delle strategie compositive, dell’analisi e del ricomporre 1].  In una conversazione del 1963 a proposito delle Partite di Bach (può essere letta per la prima volta in italiano nel presente catalogo) Gould si sofferma sul problema del da capo nei singoli movimenti di una partita e, per spiegare le sue omissioni, sembra quasi trasformarsi in un sostenitore della musica a programma. Paragona infatti l’effetto della ripetizione nella musica strumentale a quanto accade nella Michaelis Kantate (Bwv 19 “Es erhub sich ein Streit”) dove la convenzione musicale della ripetizione si scontra con la logica del racconto: «non si può combattere la stessa battaglia due volte, ovvero San Michele combatte e sconfigge Satana, poi però a causa del vincolo musicale del da capo, tutto si ripete di nuovo, in maniera palesemente assurda». Il problema della ripetizione e di come essa implichi necessariamente un contenuto emozionale è così una sorta di motivo conduttore, perfino di simbolo della distanza fra Gould e Richter. Abbiamo alcune testimonianze sulla posizione di Richter a questo proposito contenute nei quaderni dove egli appuntava, spesso con candore, le impressioni suscitategli dagli ascolti quotidiani. Ad esempio il 29 e 30 dicembre del 1972, dopo aver ascoltato le prime quattro Partite, Richter scrive: «credo che il merito più importante dell’approccio di Gould a Bach sia nel livello di sonorità raggiunto, una sonorità che permette di rendere Bach al meglio. Eppure, dal mio punto di vista, la musica di Bach richiede maggior profondità e austerità, mentre con Gould accade spesso che tutto risulti un po’ troppo brillante e superficiale. Ma sopra ogni cosa non posso perdonargli il fatto che egli non suoni tutti i ‘da capo’, mi fa pensare che forse egli non ama Bach a sufficienza». Richter ripete l’ascolto dell’incisione gouldiana delle Partite nell’aprile del 1976 confrontando l’interpretazione del pianista canadese con quella di altri pianisti come Anatoly Vedernikov o Dinu Lipatti. A proposito della partita in Do minore sottolinea di nuovo il fatto che Gould ignora le ripetizioni, ma aggiunge: «tutto è eccezionalmente artistico, interessante e desta impressione ma… non è il mio Bach». Richter e Gould dunque se da un lato possono essere accomunati dal rifiuto del modello ottocentesco di virtuoso del pianoforte, dall’altro rappresentano due assai diverse categorie di interpreti. Il pianista di Odessa suggerisce l’immagine dell’interprete che scompare o si risolve nelle intenzioni del compositore o, come sosteneva Gould stesso, dell’interprete che si pone tra l’ascoltatore ed il compositore quasi come una sorta di medium tale da creare l’illusione di un legame diretto con la musica in quanto tale e non con la singola specifica performance. Invece Gould considerato sotto questo aspetto può esser pensato come un interprete che si pone sempre a distanza rispetto al compositore e che però, questa distanza, è anche in grado di comunicarla. Per usare le parole del suo maggior biografo, Kevin Bazzana, Gould «aderiva alla concezione romantica secondo cui l’esecutore deve imporre creativamente la propria personalità sulla musica che suona, una concezione che nel dopoguerra era superata e quasi universalmente screditata. Era un caso raro e affascinante di esecutore che combina tratti molto moderni nell'esecuzione, con un approccio totalmente romantico nell’interpretazione». Certamente ogni classificazione è schematica e arbitraria quando ha a che vedere con le ragioni dell’arte; eppure può, se usata con cura, avere un’utilità diciamo così ermeneutica, e portare a risultati soltanto all’apparenza paradossali. Così se vogliamo trarre le conseguenze ultime da quanto detto finora si può parlare a ragione di Gould come un interprete romantico nonostante egli abbia fatto di tutto per allontanare dal suo repertorio proprio la musica che storicamente si intende come romantica; mentre con assai minor rigore potremmo dire lo stesso di Richter sebbene il suo repertorio sia colmo di questa musica. Fra tutti i più grandi interpreti che dal dopoguerra ad oggi la storia della musica ha offerto, Gould è certamente quello che con un’attività insieme furiosa e metodica, con maggior ostinazione ha rotto i limiti posti dalla figura del concertista, del solista. Egli infatti sin dall’inizio della sua carriera aveva stimato di essere qualcosa di più di un ‘esecutore’, del custode di una tradizione ridotta a cliché e per questo infinitamente ripetibile. Aveva cominciato con l’idolatrare Arthur Schnabel e la sua capacità di' leggere' la musica a partire da un’idea, proseguito con l’amore per l’analisi della partitura trasmessogli dal suo insegnante Alberto Guerrero e alla fine del suo apprendistato poteva coltivare il sogno di realizzarsi come compositore. Ancora negli anni Sessanta, composto il quartetto per archi op. 1, aveva accumulato centinaia di pagine di musica, abbozzi di opere spesso legate a un testo letterario, tutte rimaste senza un esito compiuto e tutte riconducibili al ‘suo’ pensiero dominante: la solitudine intesa nella sua fenomenologia e nelle sue possibilità paradossali di correlarsi al mondo. Tante pagine di musica sopravvivono e testimoniano dei suoi diversi tentativi di produrre un’opera numero due. Aveva progettato un lavoro sulle Metamorfosi di Kafka, un’opera sulle lettere dei soldati tedeschi poco prima dell’assedio di Stalingrado, un’ altra su Richard Strauss che potesse mettere a tema la sua inattualità. Annunciava continuamente composizioni a venire, ma tutto è rimasto allo stadio di abbozzo. Il ritratto che così vien fuori è a rigore quello di un artista segnato dall’incompiutezza o, piuttosto, quello di un personaggio stendhaliano giunto troppo tardi all’appuntamento con ‘la Storia’, che cerca la propria ‘salute’ nella certosa della tecnologia. Si può ricondurre tutto il repertorio di Gould a un archetipo e a un rimosso. Il primo è rappresentato dalla figura di Johann Sebastian Bach come l’ideale del musicista che si pone al di fuori delle correnti fondamentali del proprio tempo e che congeda una tradizione nell’atto di riassumerla. Il rimosso invece è il grande repertorio romantico, quello su cui il concertismo moderno nel XIX secolo è sorto e su cui si mantiene tutt’oggi. Alla funzione-Bach, possiamo ricondurre quello che è stato forse il più grande merito di Gould come musicista, ovvero l’aver indicato attraverso interpretazioni appassionate la possibilità di amare insieme la musica di Schoenberg e quella di Richard Strauss in netta opposizione ai profeti di uno sviluppo musicale teleologicamente orientato e unicamente dominato dalla tecnica compositiva (come voleva ad esempio Boulez nella sua fase più modernista). Nei diversi ‘ritratti’ dedicati ai due compositori Gould non rifiutava l’accusa di conservatorismo loro rivolta: il Weltschmerz – come diceva in un tedesco impacciato – o il romantico distruggersi di una comprensione unitaria della realtà che con diversa intensità e modo i due musicisti sentivano e in reazione al quale costruirono le loro opere musicali, era per lui un conservatorismo cambiato di segno: la testimonianza di una intrinseca moralità della loro musica. Attraverso il rigore costruttivo di Schoenberg e il distacco dissimulato e insieme nostalgico di Strauss, Gould poteva finalmente scorgere come protetto in una roccaforte, le proprie rimozioni romantiche.

NOTE 1] La critica di Gould alla ripetizione delle idee musicali (al di là delle differenti epoche e dei diversi compositori) così come l’ideale di ascoltatore consapevole che il pianista allora si andava formando sono enormemente debitori verso il pensiero di Arnold Schoenberg. Con valore puramente esemplare si legga quanto segue dal saggio Brahms il progressivo: «La grande arte procede verso precisione e concisione. Presuppone la mente vigile di un ascoltatore istruito, che con un solo atto del pensiero colga in ogni concetto tutte le associazioni relative all’insieme. Ciò consente a un musicista di scrivere per menti elevate, non facendo soltanto quello che esigono l’idioma e la sua grammatica, ma conferendo a ogni frase tutta la pregnanza di un significato di una massima, di un proverbio, di un aforisma. Ecco che cosa dovrebbe essere la prosa musicale: una rappresentazione diretta e precisa di pensieri, senza rattoppi, senza rivestimenti inutili e ripetizioni vuote» in Arnold Schoenberg, Stile e pensiero, a c. di A. M. Morazzoni, Milano, Il Saggiatore 2008, p. 236.

 
Per saperne di più:
 
Kevin Bazzana, Mirabilmente singolare, racconto della vita di Glenn Gould, trad. di Silvia Nono, Roma, Edizioni e/o, 2004. “Glenn Gould Magazine” ed. Glenn Gould Foundation, www.glenngould.ca
Glenn Gould, Sviatoslav Richter, Broadcast Commentary in “Glenn Gould Magazine” 1/1995.
Sofia Moshevich, Glenn Gould and the Russians, in “Glenn Gould Magazine” 3/1997.
Sviatoslav Richter, Notebooks and conversation, ed. Bruno Monsaingeon, trad. Stewart Spencer, Princeton University Press, 2001

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