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Radu Lupu su Genrich e Stasik (V.Voskobojnikov 1990)

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RaduLupuparla del suoMaestro

di Valerij Voskobojnikov

1988


(estratto)

Da una conversazione con Valerij Voskobojnikov del 9 maggio 1990 *. Pubblicata in "In memoria di Stanislav Neuhaus", libro edito dall'Accademia Musicale Chigiana nel 1991.



Valerij Voskobojnikov

Radu, raccontaci del tuo primo incontro con Stasik (Neuhaus, ndr.): quando è avvenuto, e come?

Radu Lupu

Nel 1963 io ero ancora studente del Liceo "Merzljakovskij", presso il Conservatorio di Mosca, e facevo parte della classe di Galina Egiazarova, che all'epoca frequentava l'aspirantorato diretto da Delik Baškirov. Per lei io ero l'allievo migliore e perciò decise di farmi ascoltare da Genrich Gustavovič per farmi entrare nella sua classe al Conservatorio, cosa che io desideravo moltissimo. Perciò un giorno la mia insegnante di musica da camera del Liceo (purtroppo ora non riesco a ricordare il cognome di questa donna deliziosa, ex allieva di Neuhaus) mi accompagnò dal suo Professore, per farmi ascoltare. Suonai, chiaramente in modo terribilmente grezzo e molto forte, varia musica di effetto e la Rapsodia di Enesco (allora mi piaceva moltissimo suonare pezzi orchestrali, dei quali facevo personalmente le trascrizioni). Probabilmente suonai anche Bach. Genrich Gustavovič mi accettò, e dall'autunno del 1963 iniziai le mie lezioni con lui e nello stesso periodo anche con Stasik. 

[...]


V. V. Anch'io ho avuto inizialmente la stessa reazione. Bisognava fare troppe cose dopo la prima lezione con lui (si parla di Genrich Gustavovič Neuhaus, ndr.), prima di tornare, non è vero?

R.L. Non si trattava di questo, per me; semplicemente allora non riuscivo a capire che cosa si esigeva da me. Evidentemente suonavo in modo un po'"selvaggio". Il fatto è che allora mi divertivo a raggiungere sonorità molto ampie, tendevo verso l'orchestrazione dello strumento. Suonavo in modo orrendo, senza rendermi conto di che cosa fosse la musica, e mi appassionavo di effetti puramente sonori. Krajnev, che mi accompagnava, iniziò anche lui con un fortissimo: mi venne voglia di mostrargli che, anche se ero un piccolo čuvak, ero capace di ottenere un suono ancora più forte, e quindi mi sono messo a spingere. 

"Čuvak", parola del gergo musicale: negli anni '50-60 nei Conservatori significava appunto piccolo principiante

V. V. Non ti ricordi cosa disse in proposito Genrich Gustavovič?

R.L. Ah, si arrabbiò terribilmente e uscì dall'aula, poi tornò e si mise a lavorare; egli insisteva per ottenere la musica ed era una cosa molto semplice, ma io in quel periodo non avevo capito che si trattava di chiarezza del discorso musicale.

V. V. Quali altre opere hai studiato con Genrich Gustavovič?

R.L. La Prima Ballata di Chopin e il Quinto Concerto di Beethoven: a giudicare dal vecchio manifesto che vedo in casa tua con il programma del saggio degli allievi di Neuhaus, anche tu dovresti aver studiato con lui questa composizione.

V. V. Sì, Neuhaus insegnava magnificamente questa musica. 

R.L. Ma egli insegnava in modo colossale anche la Prima Ballata. Ecco, abbiamo appena ascoltato la Kreisleriana nell'esecuzione di Heinrich Neuhaus. Da molto tempo non ascoltavo le sue incisioni, e mi sono ricordato di quale classicità e logicità del concetto erano presenti nella sua interpretazione, di quanta chiarezza nella linea dello sviluppo. Soltanto dopo il Conservatorio ho cominciato a capire davvero qualcosa e a diventare, come si suol dire, un musicista. Non si tratta di prendere un certo numero di lezioni, una, due, tre o anche dieci, non bastano lo stesso. La musica entra nel nostro subconscio soltanto in seguito ad una costante ripetizione. Io ho studiato con Genrich Gustavovič negli anni 1963-64, sia con lui che con Stanislav Genrichovič (oppure Stasik, come tutti noi lo chiamavamo), e dopo la scomparsa di Genrich Gustavovič solo e costantemente con Stasik. Non mi ricordo se sono mai stato nella sua casa a Mosca: per le lezioni ci si incontrava sempre al Conservatorio, nella classe n.29, dove io preferivo suonare sul vecchio Bechstein, situato vicino alla finestra. Ma qualche volta Stasik insegnò anche in un'altra aula, forse nella 22a, di fronte alla classe di Rostropovič.

V. V. Ma quando studiavi ancora sia con il padre che con il figlio, avevi l'impressione che la seconda lezione fosse la continuazione della prima, oppure erano riscontrabili contraddizioni in senso musicale? 

R.L. Non mi sembrava che si trattasse proprio di una continuazione. Diciamo così: da Genrich Gustavovič ottenevo non semplicemente la descrizione, ma direttamente il disegno della struttura della musica, e non con l'aiuto della secca terminologia, ma in tutti i modi, con esempi da altri generi d'arte, da altre composizioni musicali, per spiegare la forma, dare un'idea della sostanza dell'opera, che io allora non possedevo. E se da Genrich Gustavovič ricevevo lezioni sull'arte dell'interpretazione, invece da Stasik, due volte alla settimana, ottenevo esattamente quello che allora mi serviva, nel senso più terreno: la disciplina dell'esecuzione, la fedeltà al testo. Stasik in questo senso era terribilmente scrupoloso; ho paura di esprimermi male, ma egli insegnava a lavorare sui dettagli come se si stesse smontando a pezzetti una macchina, per spiegarne il funzionamento. Questo era il percorso verso l'esecuzione artistica al pianoforte. Io avrei dovuto attraversare tale strada, come chiunque, per capire le cose più elementari delle quali la musica è composta. E se da Genrich Gustavovič era necessario presentarsi alla lezione solo quando l'opera era più o meno pronta, da Stasik andavo sin dall' inizio dello studio del pezzo. 

V. V. Quindi, se ho capito bene, Stasik ti ha aiutato ad orientarti correttamente nel testo e ti ha insegnato a lavorare?

R.L. Sì, mi ha insegnato il rispetto per il testo, mi ha insegnato ad osservarlo, e questa è la base per qualsiasi interprete. Naturalmente si tratta di una cosa del tutto elementare, ma in realtà cose simili sono comprese davvero da pochissime persone. Una tale impostazione deve diventare la prassi, l'esercizio, al quale partecipano costantemente gli occhi e lo spartito; deve diventare una reazione obbligatoria e naturale, ma non cieca: una reazione consapevole alle note nello spartito. E Stasik questo lo sapeva fare meravigliosamente, anche se all'epoca molti dei suoi allievi, ed io tra di loro, volevano diventare artisti subito. Inoltre la sua mano, forse nella propria struttura non molto fortunata (oggi l'avrei guardato, certamente, in modo diverso), è riuscita a procurarmi, nonostante tutto, un'enorme impressione, puramente espressiva, senza alcuna esagerazione: soltanto guardando le sue mani ho imparato il suono pianistico, cioè i colori, la varietà.

V. V. L'ho pensato anch'io, ascoltando i tuoi ultimi concerti. 

R.L. Non si riesce ad impararlo solo ascoltando. Ascoltare non è tutto. Nel movimento della mano, nell'atto stesso del suonare, ci deve essere una certa espressività. 

V. V. Quando tre anni fa sono tornato a Mosca per assistere al centenario della nascita di Genrich Gustavovič, mi è capitato, durante uno degli incontri tra gli allievi di Neuhaus, di ascoltare un racconto di Vera Gornostaeva. Una volta ella chiese al Professore: « Genrich Gustavovič, da che cosa dipende il suono?» Ed egli rispose: « Come da che cosa? Naturalmente dal cuore! » Ma poi è rimasto sopra pensiero, si è fermato ed ha aggiunto: « No, certamente anche dall'udito ». Cioè Genrich Gustavovič univa due elementi, l'udito ed il cuore, mentre nel concetto di talento includeva la passione e l'intelletto. Per quanto riguarda Genrich Gustavovič - lo possiamo dedurre anche dalle sue incisioni - il suo suono meraviglioso era, a mio avviso, un dono di natura. Tu ritieni che per Stanislav il suono fosse oggetto di una cura particolare, oppure era anche per lui una questione di intuizione? 

R.L. Credo che provenisse da tutto l'insieme della sua espressività, sia come persona che come artista. Non so se la sua mano abbia avuto su tutti lo stesso effetto che ha avuto su di me. Bisognava vedere quel suo gesto, quella sua attitudine al pianoforte: è proprio quel dono innato che possiede un uomo che sa che cosa vuole dalla musica. E' come dirigere, ma dirigere in maniera più naturale. Ecco, Stasik mostrava, e con questo contemporaneamente aiutava a sentire persino visualmente. E' chiaro che nei primi anni io lo imitavo, ed egli ha saputo mostrarmi come ottenere la naturalezza utilizzando i fraseggi più svariati, il peso, il legato, come riuscire a suonare senza tensione, come percepire tutti questi vari modi della tecnica. Anche se (non sarà forse inopportuno dire anche qualcosa di negativo in questa nostra conversazione su Stasik?) ogni tanto, a mio avviso, nel suo modo di suonare c'era qualcosa di eccessivo: diciamo che esagerava tutta questa espressività, che derivava dal suo temperamento; era una figura fortemente romantica, mentre io già allora avevo inclinazioni del tutto diverse. 

V. V. Già allora tu sentivi che Stasik suonava, in un certo senso, in maniera troppo espressiva? 

R.L. Volevo dire che la natura di ogni persona e la sua artisticità devono manifestarsi in modo tale di trasmettere ciò che per questa personalità e per questo artista è più naturale possibile; e in modo che alla fine di tutto, dopo tutto il lavoro intellettuale e l'analisi dettagliata, non resti nessun, per così dire, "resto del lavoro".

[...]


* Radu Lupu tenne un recital all'Auditorium di via della Conciliazione in Roma il 4 maggio 1990.


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